Quali sono le radici del Made in Italy nel comparto dell’alta moda? E’ facile risalire agli Ottanta/Novanta del Novecento, quando Milano, divenuta sede di importanti brand del lusso quali Gucci, Armani, Prada, Zegna, Dolce&Gabbana, acquisì il ruolo invidiato di capitale italiana della moda e del design.
Eppure, a ben vedere, la lente dello storico induce a risalire indietro nel tempo perché ci sono ragioni più profonde che spiegano per quale motivo Milano sia divenuta capitale del Made in Italy. Nel basso Medioevo, più precisamente all’epoca della signoria dei Visconti e degli Sforza, tra il XIV e il XV secolo, possiamo collocare gli esordi e il definitivo affermarsi dell’industria artigianale del lusso nell’abbigliamento e negli arredi. Certo, a quei tempi, la moda obbediva a finalità diverse, più legate a ragioni di rappresentanza politica. Oggi un imprenditore che lavora nell’abbigliamento orienta le sue produzioni in base a una clientela le cui scelte sono dettate da logiche tendenzialmente “private”: il cliente che acquista un capo di abbigliamento lo fa non solo per rispondere ai suoi gusti; in una società fatta da persone che non conosce – il dato è essenziale – desidera comunicare un messaggio, intende fare del vestito lo specchio in cui appaiono le sue qualità. L’abito diviene insomma un biglietto da visita.
Nel Medioevo la situazione era diversa, ma anche allora ci si vestiva per comunicare, per presentarsi in società secondo un codice di costumi fondato sulle apparenze. La clientela rispondeva a logiche di comunicazione politica legate al ceto di appartenenza. La società di oggi è costituita da cittadini privati ed eguali, liberi di agire nel rispetto delle leggi statali. In fondo, siamo ancora figli della rivoluzione francese. Nel Medioevo non esistevano cittadini in questo senso. I diritti e i doveri di ciascuno erano legati al ceto di appartenenza. Si capisce quindi come l’abbigliamento fosse un codice distintivo di fondamentale importanza, perché consentiva a una società corporativa come quella medievale di riconoscere le persone dall’abito che portavano.
La corte dei duchi di Milano costituisce un esempio emblematico. Il segno più distintivo dell’alta moda fu la produzione dei tessuti auroserici, un tipo di lavorazione che, affermatosi a Milano nel corso del Quattrocento, raggiunse livelli di eccellenza per tutto il secolo seguente. In effetti il ducato visconteo-sforzesco poteva contare su tecniche consolidate di tessitura e tintura che riguardavano capi come i fustagni o la lana.
La produzione dei tessuti auroserici era qualcosa di molto diverso. Si trattava di una lavorazione di altissima qualità che, alla fine del Trecento, era presente in alcuni Stati italiani (repubblica di Genova, repubblica di Firenze, repubblica di Venezia, repubblica di Lucca) che per ricchezza potevano permettersi la produzione e il commercio di questi manufatti. In cosa consisteva tale lavorazione? Ad essere tessuti erano articoli quali lampassi e damaschi, broccati d’oro e d’argento, velluti sul cui pelo di seta venivano incisi disegni araldici. Le fasi della lavorazione e del commercio del prodotto erano gestite interamente da una persona che potremmo definire “mercante imprenditore”. Questi acquistava anzitutto la materia prima. La seta proveniva dalla Spagna meridionale; la cocciniglia – il prezioso colorante rosso prodotto in Polonia o in Armenia – o l’indaco di Baghdad – il miglior colorante azzurro per la seta – erano acquistati nei mercati sulle sponde del Mar Nero, alcuni fatti arrivare mediante il trasporto su chiatte lungo il Danubio; i lingotti d’oro e d’argento giungevano invece dalle miniere del Nord Europa. Il processo di lavorazione avveniva in due stadi. Nel primo il mercante forniva le materie prime agli artigiani. Una particolare fase di lavoro era ad esempio quella del battiloro: consisteva nel ridurre il singolo pezzo d’oro in lamine finissime che venivano poi tagliate con apposite forbici e inserite nel tessuto di seta dalle “filaoro”, maestranze femminili specializzate. Nel secondo stadio il mercante ritirava la stoffa lavorata e la portava nell’“apotheca”, ove il maestro tessitore, sulla base del disegno che gli veniva fornito, procedeva alla complessa tessitura del prodotto: tale lavoro poteva richiedere fino a tre settimane per la consegna dell’articolo finito. Il capo d’abbigliamento o l’articolo di arredamento veniva quindi venduto dal mercante alla corte ducale, alle ricche famiglie della nobiltà, ma anche a numerosi borghesi arricchitisi in questo settore.
Come fu possibile la nascita di quest’arte nel ducato di Milano? Nulla nasce per caso. Tale lavorazione venne introdotta in città per volontà del duca Filippo Maria Visconti. Gli Sforza poi incrementarono l’industria auroserica. I duchi praticarono una politica di “apertura all’esterno” creando le condizioni per fare arrivare a Milano i migliori artigiani e le macchine più importanti che servivano alla lavorazione. Negli anni di Filippo Maria Visconti (1412-1447) e di Francesco Sforza (1450-1466) vennero chiamate a lavorare a Milano le migliori maestranze tessili provenienti da Genova, da Venezia, da Firenze, da Lucca. Questi artigiani insegnarono la lavorazione auroserica alle famiglie dell’aristocrazia mercantile lombarda, tanto desiderose di apprendere i segreti dell’arte quanto decise ad arricchirsi mediante l’innovazione e il commercio dei prodotti. In secondo luogo, questi maestri poterono lavorare in libertà: la loro attività non venne impedita, rallentata, ostacolata dagli Statuti delle corporazioni cittadine e non esistevano neppure leggi suntuarie che limitavano il commercio. Una situazione di assenza di vincoli che durò fino al 1461. Tuttavia, val la pena ricordare che anche dopo quella data, le norme sul lusso furono abbastanza elastiche, rendendo possibile la produzione e il commercio di articoli di alta moda.
L’aristocrazia mercantile milanese investì ingenti risorse finanziarie nella produzione di tali manufatti auroserici, curandone lo smercio nei mercati internazionali. Mandò inoltre i suoi figli ad imparare l’arte nelle botteghe dei migliori tessitori toscani e genovesi immigrati a Milano. In alcuni casi si andò anche oltre. Del tutto indicative in proposito le strategie matrimoniali messe in campo dal consigliere ducale Oldrado Lampugnani, che nel primo Quattrocento fece sposare una delle sue figlie con il tessitore fiorentino Pietro di Bartolo.
Quali insegnamenti possiamo ricavare da questa storia? Anzitutto che l’ipertrofia legislativa, la presenza di vincoli burocratici soffoca qualunque impresa. Nel ducato di Milano l’industria auroserica rimase un comparto di eccellenza nel campo dell’alta moda per tutto il Cinquecento proprio per l’assenza di vincoli particolarmente stringenti nel comparto del lusso. Nel Seicento la crisi economica provocata dalle guerre, dalle carestie e dalle pestilenze impoverì la borghesia milanese, segnando una netta separazione tra il ricco patriziato cittadino e una popolazione in gran parte ridotta in povertà. Eppure, anche allora, nonostante tali difficoltà, la nobiltà cittadina – cui competeva la disciplina normativa sul lusso – emanò poche disposizioni in materia. Tra il XVI e il XVIII secolo nel ducato di Milano vennero emanate solo otto normative suntuarie: un numero esiguo se rapportato alle ventuno leggi vigenti in materia nel granducato di Toscana o alle ottanta o poco più nella repubblica di Venezia. Inoltre, diversamente da altri Stati europei, le normative milanesi si caratterizzarono in molti casi per la mancanza di pene severe contro i trasgressori. Segno che i governanti, costretti a legiferare per ragioni di ordine politico e religioso, lo fecero con l’intenzione di limitare il più possibile i danni all’industria milanese.